di Giuseppe Jisõ Forzani da D Web.
Alla ricerca di un'assenza di parole, di suoni e rumori. Come nutrimento per la mente, oltre che per il corpo.
Il silenzio non si può dire, ma parlarne si può. Con prudenza e pudore, ogni tanto è salutare provarci. Per sfatare i pregiudizi che il silenzio circondano, intessuti di fastidio, paura, infatuazione. È diffusa, oggi, l'antipatia per il silenzio, quasi fosse una condizione di impotenza, privazione, handicap: il rovescio oscuro del suono, della parola, del rumore. Una tenebra di solitudine opposta alla compagnia luminosa dell'eloquio, della musica, del brusio. Il silenzio è ormai quasi istintivamente compreso per lo più in senso negativo, come una mancanza, un'assenza e non come una condizione fenomenica con le proprie autonome categorie di realtà. In un'epoca in cui la diversità, dopo esser stata brevemente occasione di curioso e condiscendente interesse, sembra tornare al consueto ruolo di bersaglio fisso per le irrisolte aggressività individuali e collettive, il silenzio simboleggia il diverso. E assume connotazioni sospette, quasi tendesse agguati totalitari e mortali alla vivacità democratica del suono.
Oppure, specularmente, a fronte del fastidio che il crescente inquinamento acustico e il continuo cicaleccio di parole vane ci infliggono, il silenzio si ammanta per alcuni di un'aura mitica, quasi fosse il balsamo che lenisce ogni ferita. Queste semplicistiche schematizzazioni, di cui spesso siamo complici, provengono da una concezione del silenzio come "il contrario" del suono: ma così non è. Fra quelle due realtà non vi è un rapporto relazionale. Suono e silenzio sono interdipendenti, nel senso che definiamo e nominiamo l'uno in base all'idea che abbiamo dell'altro, ma fra i due non c'è alcuna relazione costitutiva: infatti quando c'è uno, l'altro non esiste in alcun modo e forma. Non sono neppure l'uno l'opposto dell'altro, così come la morte non è l'opposto della vita: forse potremmo dire che sono inter-indipendenti. Solo cogliendo la loro reciproca autonomia, si rivela la ricchezza multiforme del suono e del silenzio. La potenza espressiva del silenzio, infatti, la sua carica comunicativa non sono certo inferiori a quelle del suono: così come le qualità, i modi, le sfumature dei silenzi non sono meno variegate delle forme dei suoni. Proviamo dunque a tessere un piccolo elogio del silenzio, non fosse che per rendercelo più simpatico o almeno un po' più familiare, o comunque non oggetto di pregiudizievoli ostracismi né richiamo per infantili fascinazioni.
Con il termine generico di silenzio indichiamo situazioni e atmosfere che dischiudono realtà molto differenti e a volte antitetiche l'una dall'altra. Non posso qui che accennare scegliendo a caso alla sconfinata gamma dei silenzi che sono parte integrante dell'umana esperienza. Il silenzio è, anzitutto, interiore o esteriore.
C'è il silenzio della natura, fenomenico, che si manifesta come una sospensione dei suoni naturali: il silenzio del vento che tace, l'improvvisa simultanea quiete del brusio delle cicale un attimo fa assordante, il silenzio che segue lo scoppio rotolante del tuono, il silenzio che precede l'alba, prima che il primo trillo saluti la creazione che di nuovo incomincia. C'è il silenzio ontologico, che incrina la barriera fra essere e non essere, il silenzio di Dio, spazio della tragedia e della libertà, origine dell'avventura e dell'angoscia, il silenzio di Buddha, che non risponde e scioglie il punto interrogativo alla domanda, il silenzio della ragione, che non è il suo sonno, ma riposo all'ombra della soglia.
C'è il silenzio del pensiero, nelle sue tante forme: smarrimento del filo e perdita di orientamento, oasi di pace nel deserto della dialettica infinita, margine al bordo dell'abisso o vetta al confine del cielo, spazio infinito che il pensiero evoca e in cui s'annega. C'è il silenzio della parola, nei suoi innumerevoli aspetti. Impossibilità fonetica fisiologica, privazione del lessico per lo straniero ignaro dell'idioma, negazione della libertà di espressione là dove la parola è controllata e uniforme, reticenza a dire per paura del giudizio, raggiunto limite delle capacità espressive, volontaria rinuncia ascetica, intensa attenzione che predispone all'ascolto, incondizionata apertura all'inaudito, resa condizionata dall'impossibilità di dire. Sono silenzi di timidezza, reticenza, pudore, omertà, segreto, pietà. Il silenzio è un'esperienza variegata e multiforme, che fa parte della vicenda esistenziale umana, e come tale da assaporare, conoscere, valorizzare, evitare. Non necessariamente va lasciata al caso o alla consequenzialità delle circostanze, ma può e, io credo, dovrebbe essere anche coltivata. Così come il rapporto del soggetto parlante con la parola che pronuncia o scrive non è determinato solo dall'abitudine alle convenzioni lessicali o dalla fantasia della momentanea improvvisazione. Ma è anche studio, ricerca, approfondimento del senso del dire e del modo di dirlo. E va coltivato, nutrito, il rapporto del soggetto silente con il silenzio che ascolta o esprime, per non essere abbandonato all'estro del caso.
L'educazione all'ascolto, presupposto di ogni dialogo autentico, compreso quello con se stessi, si fonda sulla capacità di fare silenzio. Se, mentre ascolto la parola dell'altro (o il suono di una musica, o il passaggio del vento) io non sono capace di fare silenzio dentro di me, se non faccio tacere il brusio dei pensieri, delle riflessioni condizionate, delle emozioni istintive, io forse sento i suoni che mi giungono all'orecchio, ma certo non li ascolto per quello che sono, in tutta la loro potenza espressiva.
Il rapporto con il silenzio è una funzione esistenziale primaria, alla quale ci si deve educare tramite quell'esercizio o quella pratica che definiamo "fare silenzio". Fare silenzio non vuol dire imporsi o farsi imporre un tacere esteriore e interiore passivo, subìto, ma ampliare lo spazio interiore, che è potenzialmente sconfinato ma normalmente ingombro di ogni genere di oggetti-pensiero. Vuol dire riconoscere il valore espressivo del silenzio, comprenderlo come piena partecipazione e non come passiva ricezione, come nutrimento dello spirito, della mente e persino del corpo. Non è per niente facile fare silenzio, anche perché da secoli la nostra cultura ha imboccato la strada di considerare parola e silenzio come antitetici nemici (i vassalli rispettivamente dell'essere e del non essere) e non ha elaborato un'educazione affettuosa al silenzio. Anche là dove la meditazione è rimasta come pratica tramandata, si tratta per lo più di meditazione pensata, tecnica psichica, esercizio di elaborazione di immagini mentali, per raggiungere un qualche stato interiore desiderato. Un rapporto immediato, totale, assorto e vigile con il silenzio non viene proposto come pratica dalla nostra cultura filosofica e religiosa, ma viene abbandonato al sortilegio dell'attimo. L'amicizia con il silenzio, come ogni amicizia, è un bene di cui avere cura. Altre culture, altre sensibilità ed esperienze, in particolare orientali, che oggi si incrociano con le nostre, ci fanno conoscere modalità di fare silenzio, con la mente e con il corpo, che possiamo imparare e far nostre.
Penso si tratti di una delle non molte speranze che visitano oggi il nostro presente. La ricerca è affidata a ciascuno. Il criterio per distinguere, rispetto al silenzio, la paglia e l'oro credo sia questo: se la meta della meditazione proposta è uno stato di benessere e pace, se il silenzio interiore si ammanta di aggettivi e promesse, siamo nell'ambito del gioco mentale; se si tratta soltanto di sedere in silenzio, siamo alla soglia del fare silenzio. Ma un elogio del silenzio non può terminare qui. C'è un elemento straniante che sostanzia il silenzio e che le parole su di esso non possono restituire. Non trovo modo migliore, per testimoniarlo, che raccontare brevemente una storia vera. P. coltiva una forma particolare di silenzio, o forse è lui coltivato da essa. A un anno di età si ammala gravemente e, dopo inutili cure dolorose, torna a casa destinato a morire. Di colpo, però, guarisce senza apparente spiegazione; contemporaneamente smette di parlare. Ormai da più di dieci anni non parla, ma sente e ascolta. E in rare occasioni, brevemente, dice. Vive con sua madre, L., e un giorno giunge in visita un'amica, impegnata da una lunga malattia e dalle cure per debellarla: racconta l'angoscia della notizia del male, i preparativi e i postumi del difficile intervento, la lenta convalescenza, i cicli di cure che guariscono e ammalano, il nuovo corpo, la nuova persona che emerge, la solitudine che circonda il malato...
L'amica racconta, L. ascolta e P. va su e giù, saltella, passeggia avanti e indietro, vicino e lontano, avvolto come in un'aura nel suo silenzio. Il racconto volge alla fine, si condensa nella domanda: "Che fare in questa situazione?". P. blocca il suo andirivieni. Quando si ferma così, all'improvviso, il tempo e lo spazio si fermano insieme. Tutto si arresta con lui, la parola si spegne, il silenzio di P. avvolge e riveste ogni cosa, diventa intensa, vibrante attenzione e attesa. Da lì, da quella istantanea convergenza di mondi, dal silenzio che assomma i silenzi, sbocciano tre parole: "Mangiare la paura".
Giuseppe Jisõ Forzani (1949) è un monaco buddista zen. Autore del libro Fiori del vuoto (Bollati Boringhieri) tiene corsi di dialogo interculturale all'università di Urbino
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